"Nunzio Quarto sculture e disegni - Ogni tanto un battito d'ali mi scuote" a cura di Elena Pontiggia, Edizioni Charta, 1997
"Nunzio Quarto sculture e disegni - Ogni tanto un battito d'ali mi scuote" a cura di Elena Pontiggia, Edizioni Charta, 1997 (sulla cover: "Germoglio 1980")
Nunzio Quarto. Il dinamismo, la spiritualità
di Elena Pontiggia
Nunzio Quarto è un artista insolito nel panorama contemporaneo. Nato a Barletta cinquantasei anni fa, da tempo vive e lavora a Milano, e ha alternato ai soggiorni nel capoluogo lombardo lunghi periodi di lavoro a Carrara: che è quanto dire nel capoluogo stesso della scultura. Sostanzialmente autodidatta, anche se ha compiuto studi accademici, è stato guidato nei percorsi dell’arte da una passione naturale, mai sopita e mai disattesa: una passione che gli ha permesso di superare le varie difficoltà che una scelta come la sua, sempre lontana e indipendente dal mercato, ha comprensibilmente comportato. Cinquant'anni, dunque, trascorsi lavorando isolato (isolato, vogliamo dire, rispetto al sistema dell’arte): trascorsi, anche, coltivando poche, rare, intense amicizie, e soprattutto coltivando un amore adolescenziale, appassionato e intimidito insieme, nei confronti della scultura, e in particolare del mestiere dello scultore. Per Nunzio Quarto la scultura non è mai un’opera di assemblaggio, o un ready-made. Quello che gli interessa è l’azzardo della fusione, sono i procedimenti della cottura, i tempi delle patine: i segreti insomma di un mestiere artigianale, moderno ma anche antico, che in fondo ha imparato da solo. È un lavoro, il suo, in cui si rintracciano alcuni echi importanti: echi di maestri lungamente studiati, da Boccioni a Brancusi ad Arp. E insieme echi di una conoscenza, umile ma approfondita, dei segreti e delle metamorfosi della natura. Lavorare la pietra, il marmo, progettare il bronzo ha sempre significato per Quarto una sorta di rapporto con le forze primordiali della natura, con le energie disseminate nel creato. Non soltanto una operazione intellettuale, dunque, ma un’operazione squisitamente manuale, fabrile, laboriosa. Un lavoro della mano, inteso come via primaria di conoscenza. Anche per questo non credo che il modo migliore di avvicinare la scultura di Nunzio Quarto sia quella di collocarla librescamente in un certo punto, in una certa pagina, in una certa riga delle nostre vicende espressive. Credo che il modo migliore sia invece quello di analizzarne i temi, di coglierne la liricità, di ascoltarne la voce in quanto ha di più personale: e cioè un naturalismo lirico, un’astrazione affidata sempre all’evocazione di una natura profondamente intrisa di spiritualità. Il problema che anima l’opera di Nunzio Quarto, insomma, non è tanto un problema di forme o di innovazioni o di sperimentazioni. Il suo è uno sguardo attento, affettuoso che si china su alcuni eventi e cerca di esprimerne il mistero, e insieme la poeticità. Un angelo, un battito d’ali, un germoglio, una rondine. E ancora: una nascita, un abbraccio, una nuova vita, una vita senza aggettivi. Sono queste le cose che lo attraggono, che lo spingono a tentare la ricerca di un’espressione. In questo senso figurazione e astrazione non sono nella sua scultura linguaggi opposti, ma linguaggi complementari, che tendono a rappresentare quello che a Nunzio Quarto interessa di più: l’apparire entro i confini della materia di una spiritualità che la trascende.
È lo stesso concetto che anima la scultura recentemente premiata da una giuria presieduta da Marco Rosci e scelta per essere realizzata sul lungolago di Arona (Andare dialogando con la rondine). Anche qui il tema era il passaggio da un dato fisico a uno metafisico: l’aspirazione di ciò che è concreto a superare i limiti della mera concretezza. Un concetto, sia detto per inciso, che si accorda bene con un paesaggio così intensamente lirico come quello del lago di Arona. Chiesero una volta a Dürer come mai avesse impiegato tanti mesi di lavoro per dipingere il mantello di un coniglio. E lui rispose che aveva cercato di comprendere, studiando pazientemente la figura dell’animale, l’opera stessa di Dio. Per Nunzio Quarto (se è lecito accostare qualcuno al sommo Dürer) il procedimento di indagine non è dissimile. Le sue forme sono astratte: ma al fondo della sua geometria si sente che c’è un’ansia mistica. Dietro i suoi angoli, i suoi triangoli sfalsati, i suoi cerchi, le sue ali di rondine che si ingegnano in voli geometrici, c’è lo sforzo di capire non la geometria, ma qualcosa di più assoluto. Forse, l’Assoluto stesso. Si tratta di una geometria che affonda le sue radici nel mondo vivente: il mondo dei minerali, dei vegetali, delle cose animate, il mondo dell’ordine naturale in cui meglio si manifesta l’Ordine soprannaturale.
Tutta questa dimensione di spiritualità, peraltro, non deve far pensare a un ripudio della materia. La fisicità, nelle opere dello scultore, emerge con prepotenza, anzi con passionalità. La natura è sentita nei suoi aspetti di fascino e di seduzione, sia pure trasformata e tradotta nella purezza di forme sintetiche. Ma questa fascinazione istintiva, avvolgente, è considerata sempre un punto di partenza, non il punto di arrivo. Del resto uno dei maestri ideali di Nunzio Quarto è stato Brancusi.
Brancusi diceva che non bisogna rappresentare la forma delle cose, ma la loro anima. E qualcosa di simile potrebbe dire lo stesso Quarto: con le sue geometrie va alla ricerca della dimensione spirituale delle cose e per così dire ne vuole dimostrare l’esistenza. Se dunque leggessimo il percorso di questo scultore con un occhio notarile, curioso di date, di reminiscenze e di storicizzazioni rischieremmo solo di fraintenderlo, e di ritrovarci in mano ben poca cosa. Se invece, ci accosteremo al suo lavoro prestando attenzione soprattutto al suo mondo poetico (un mondo di intatta intensità e pervaso da una genuina, verrebbe da dire naiveté, se l'aggettivo naif non fosse ormai sinonimo di artificio e di falsità) allora potremo intessere con queste opere un dialogo più proficuo.
Per questo anche la nostra lettura non procederà tanto per date e stagioni, quanto per temi: non per andare incontro a una voluta genericità, o peggio a-storicità, ma per cercare di sottolineare soprattutto quelle intuizioni poetiche che Nunzio Quarto ha colto nel suo lavoro. Ma per entrare in medias res partiamo da quell’opera ancora giovanile che si intitola Colombi, del 1957, che rappresenta due sagome avvicinate di volatili, colte nell’atto tenero del tubare.
Il tema potrebbe prestarsi a sdolcinature e a sentimentalismi, ma Quarto lo risolve soprattutto in una meditazione spaziale: raccogliendo i due Colombi nello spazio e disponendo la piattaforma come una naturale prosecuzione dei loro corpi. In questo modo, in un’opera ancora embrionale (nel 1957 l’artista, non si deve dimenticare, ha appena sedici anni), Quarto esprime quelle che saranno due costanti del suo lavoro: l’interesse per la forma aperta, mutuato da Boccioni, e quello per la spiritualità, per un misticismo ricercato amorosamente nelle pieghe della natura. La forma dei colombi, dicevamo, si allarga e si svolge in quella della base, esattamente come aveva insegnato Boccioni, che nelle sue Forme uniche nella continuità dello spazio aveva voluto dipanare la forma verso l'Infinito, pur dovendo necessariamente concluderla entro precisi limiti. Che Boccioni sia sempre stato uno dei maestri più amati da Quarto non è un mistero: il tema dell’evoluzione interna di una forma è centrale nella sua ricerca. In lui, però, non c’è traccia del pensiero futurista, perchè i temi che lo attraggono sono piuttosto quelli della natura. Ma si tratta di una natura, come abbiamo detto, che tende verso l’immaterialità, che tende a sfidare le leggi di gravità per essere più anima che materia.
Durante gli anni Sessanta il percorso di Quarto comprende numerosi ritratti, tra cui il più intenso è quello della madre (1964). E non mancano, nei primi anni Settanta, anche temi che riprendono una sua personale rielaborazione di un “ciclo degli umili e degli emarginati”, popolato di maschere e di figure fiabesche (Pierrot, 1971).
Ma proprio in questi anni la sua ricerca volge lentamente e rigorosamente verso l’astratto. Dapprima la figura umana (Signore, ascoltaci) viene sempre più geometrizzata e stilizzata. Poi, a creare un ideale contrappunto, forme non figurative si affiancano alla figura, e diventano gradualmente preponderanti (Donna con il pugno chiuso, 1970).
Infine l'immagine diviene solo un’evocazione (Casa del nonno con albero), perché la figura si traduce in pura forma, e la forma viene indagata nelle sue articolazioni interne, nei dinamismi cauti e circospetti che la animano.
Per Quarto, però, l’astrazione non è una ricerca puramente formale: non gli interessa una forma che sia puramente geometrica, sottratta al confronto con il mondo reale o alla sua memoria. Anche lui, sulla scia di Paul Klee, si può considerare “un astratto con qualche ricordo”: un creatore di geometrie che racchiudono sempre l’evocazione naturalistica. Il passaggio dalla figurazione all'astrazione si accompagna all’uso frequente del bronzo, alla ricerca di profili nitidi, taglienti, precisi, di perimetri risoluti e angolari. Ma, rispetto a tanta fredda scultura contemporanea, non si può non rimanere colpiti dall'affabilità, dall'affettuosità (verrebbe da dire dalla tenerezza) con cui l'artista osserva i minimi eventi naturali e li traduce nella pietra o nel metallo. In Insieme, un abbraccio, le forme tendono a scindersi simmetricamente, e al tempo stesso a riconnettersi in un afflato, che è mentale prima ancora che fisico. In Nascita assistiamo a uno degli esiti più significativi di Nunzio Quarto. Siamo di fronte allîndagine di un elemento (un elemento misterioso: sappiamo che si tratta di una nascita, ma non ci è detto chi o che cosa nasca) nel suo stesso costituirsi. C’è come uno scarto, uno scatto, che porta la forma a essere vista in successione, in momenti diversi, in un suo lento volgersi e flettersi su se stessa. Questa lieve sfasatura dei perimetri, dei piani costruiti, suggerisce l’evento stesso del nascere, inteso come dinamismo interno della materia. La semisfera in primo piano segna insieme il cuore pulsante e il concludersi dell’opera: il suo nucleo più intimo e il suo fine.
La lezione che Nunzio Quarto riprende qui è quella alta delle avanguardie, da Boccioni agli scultori cubisti: Brancusi (se cubista si può definire), Archipenko, Duchamp-Villon in primis. C’è anche, in queste forme, una vocazione mitemente surreale: la volontà di fare un viaggio dentro la cellula, nel mondo dell'infinitamente piccolo: quel mondo che, come sapeva Kant, è capace quanto quello dell’infinitamente grande di suggerire il sublime.
A volte le forme si semplificano fino a diventare nitidi parallelepipedi (Germoglio). A volte l’artista esplora le possibilità del vuoto, contrapposto al pieno (Germoglio n.2). A volte, ancora, la forma si sfoglia, come le pagine di un libro, in un susseguirsi di piani che suggeriscono la continuità della geometria nello spazio, l’ordine logico e cronologico degli eventi. A volte, ancora, è il vuoto a essere il nucleo dell’opera: uno spazio libero, germinante, che dà sapore e significato alla materia, e in cui ciò che è assente è più importante di ciò che appare. Come diceva Lao Tze, e Archipenko ripeteva sempre, “l’utilità della tazza dipende da ciò che non c’è”.
A far da contrappunto alla ricerca plastica qui presentata si devono considerare i numerosi disegni dell’artista, che ne rappresentano la traccia e insieme l’ombra. Soprattutto nei disegni emerge il dinamismo delle forme. Lo si scorge nei segni che sembrano non volersi bloccare e che proseguono oltre i perimetri della figura. Lo si scorge nei contorni che sono sempre ribaditi ostinatamente, non solo per suggerire lo spessore della forma, ma anche per sottolineare che si tratta di forme che respirano nello spazio e che solo per un attimo si sono bloccate nella solenne immobilità della scultura.
Disegno e opera, insomma, rispondono agli stessi criteri e alle stesse aspirazioni: un andare oltre la superficie e la superficialità, per scoprire ciò che le parole non possono dire e che solo il silenzio rivela.