Nunzio Quarto - La città nel Sole - Scultura Pittura Ceramiche Disegni - Circolo Culturale Bertolt Brecht 25 Settembre-16 Ottobre 2003 - a cura di Giorgio Seveso
Nunzio Quarto - La città nel Sole - Scultura Pittura Ceramiche Disegni - Circolo Culturale Bertolt Brecht 25 Settembre-16 Ottobre 2003 - a cura di Giorgio Seveso
LE FORME DELLA SEMPLICITA’
L’ispirazione che sostiene il lavoro di Nunzio ha una sua natura inconfondibile, una sua qualità specifica. Ha come il segno di un sigillo, di un’impronta che l’ha sempre sospinto e contraddistinto nel suo percorso di scultore e di poeta d’immagini, dalle primissime prove di più semplice e schietta visione figurativa fino alle forme più sode e concluse di oggi.
È un’impronta carica di lirismo e di pietas per le cose del mondo, per gli accadimenti della natura, degli uomini, della vita. Un’impronta istintiva ma anche colta, alimentata da una cultura intrecciata alle asprezze e all’agro della sua terra d’origine, nella quale conserva robuste radici d’affetto, e insieme alle dolcezze delle sue campagne.
Ho scritto la parola “istintiva”. E difatti si potrebbe ben definire, la sua, una figurazione istintuale, sorgiva, che cioè sgorga senza mediazioni né formalizzazioni dal calore dei ricordi e dall’intensità dei sentimenti. Una figurazione, anche, di confine, in cui magicamente immagini archetipe s’inventano oggi una loro nuova e fatata presenza sacrale, fragrante d’ombre e di luci, di patine e superfici capaci di densi valori tattili.
Nunzio Quarto è un artista il quale, pur maneggiando e padroneggiando un repertorio formale ed espressivo di ormai decisa attualità plastica, in cui importante ed evidente è il ruolo della formalizzazione, non ha per nulla e mai rinunciato tuttavia a volere ben vive la sua scultura e le sue immagini, ad impegnarsi perché le sue opere riescano davvero a comunicare. E direi che ciò accade in primo luogo per l'evidente e costante allusività iconica che, a differenza di altri, è rimasta attiva nelle sue elaborazioni. Difatti, le stilizzazioni e le geometricità che sotto le sue mani percorrono il metallo o la pietra non appaiono mai fini a se stesse, non risultano mai esclusivamente ispirate alle mere ragioni del bello scultoreo o a quelle di una precisa e rigida sintassi stilistica, e si collegano invece, grazie al misterioso incanto della poesia, alle compatte sostanze emozionali della figuratività.
Ma accade, soprattutto, perché di tutta evidenza non è solo la definizione della struttura plastica ad interessarlo. In altre parole, la sua formalizzazione dell'immagine non è mai meramente formalistica, e si riscalda invece al calore di un immaginario ben più complesso e completo, in cui si ritrova, sì, lo spazio della ricerca ma anche si rinvengono una concentrazione, una meditazione, un fervore poetici precisi.
In lui la forma, che sia plastica per la scultura o bidimensionale per la pittura, è sempre evocatrice e non descrittiva, allusiva e non denotativa.
Certo, venendo da una formazione tutta artigianale, Quarto s'è faticato da sé ogni sapere ed ogni risultato, e difatti il suo rapporto con i materiali dell'immaginazione e dell'elaborazione lirica è un rapporto complesso, di scavo e di sintesi, che si regge su una profonda e, dicevo, istintiva, connaturata sensibilità e perizia tecnica, che vive soprattutto al livello di rapporto affettivo, di coinvolgimento emozionale con il sentimento stesso dell'esistere e della vita. Per questo il suo lavoro si svolge secondo lente ed assorte maturazioni tematiche che, con approfondimenti, riprese, nuove intuizioni e ritorni, innescano, appunto, la fantasia, la dilatazione lirica, la metafora poetica interna alle forme stesse, e trascinano suggestivamente le tensioni tattili e plastiche della scultura e delle immagini in un largo territorio evocativo.
Sono queste, come ha scritto anche Elena Pontiggia per una bella monografia a lui dedicata, le cose cui Nunzio annette una vera importanza per la sua arte, e che definiscono la particolare freschezza del suo linguaggio espressivo. In questo senso figurazione e astrazione, in fondo, non sono opposte, ma divengono complementari, sfaccettature diverse di un medesimo impegno sensibile e spirituale.
Ci sono difatti, in questo artista e nella sua lunga vicenda espressiva, una serie di dati e di elementi linguistici magari diversi, forse anche contrastanti tra loro, ma tutti percorsi come da una illuminata visione, come da una particolare e permanente gentilezza, da un garbo dell’immaginazione plastica e poetica. Una sorta di illuminazione, dirò subito, che suona, per me, come finezza della mano e dell’attenzione nel risolvere i problemi dell’espressione in un impianto e disposizione non retorici né illustrativi, come disponibilità della fantasia (e specificamente di quella parte così particolare e intrigante dell’attività fantastica che è costituita dall’immaginare non solo pensieri o sentimenti ma appunto immagini) a farsi carico del vissuto che ci circonda; ad investirsi, insomma, dell’oggettivo che sta nel mondo per restituircene, inverata nell’opera, una traduzione tanto più lirica quanto più soggettiva. Una visione, insomma, tutta ed esclusivamente terrena, fatta di sentimenti, di situazioni, di dimensioni ben concrete e ben terrestri della coscienza e dei sensi, nemmeno tanto dipendente dall’estetica del fare, quanto, e soltanto, dalla sua intrinseca, seducente verità poetica.
Nunzio Quarto è un artista, difatti, che appartiene a quella “razza” di cui si viene perdendo lo stampo, poiché si è sempre mosso e ancora si muove soprattutto preoccupato della sua propria interna coerenza e non da questioni di riconoscibilità, di stili espressivi, di “marchio di fabbrica”, come altri invece hanno fatto e fanno con ormai noiosa e ripetitiva disinvoltura.
E, soprattutto, avendo a centro e cardine di ogni impulso e di ogni idea plastica, di ogni contenuto simbolico, l’immagine della realtà, uomo e natura, tempo e memoria: realtà comunque trattata, o reinventata, o “tirata” da trasfigurazioni e deformazioni emblematiche.
D’altra parte, questa sua rarità d’artista, che è di natura più etica, dunque, che meramente estetica, non si gioca su impulsi esteriori ma al contrario, nei vari cicli e momenti del suo lavoro, spesso si ispira e si conforta all’innesco rappresentato da precisi spunti lirici, da illuminazioni e impulsi di cuore e di pensiero che Quarto rinviene tra i suoi sogni ad occhi aperti, e che prendono, il lui, la densità di un verso di poesia annotata in fretta, a margine di un foglietto o sulle pagine di un quaderno, o che divengono il titolo stesso di un’immagine o di una scultura.
Ed è forse proprio questa ispirazione lirica di partenza che spinge il suo lavoro su un terreno di efficacia e di persuasività emozionale ben più allusivo e largo rispetto alla loro mera consistenza plastica. Una parca, pudica poesia di fondo ne percorre difatti, dicevo, ogni snodo, animando una liricità dolente, spigolosa, come infranta da una pena inaudita e da una serie di speranze inespresse, ossificata nel gesto contemplativo che s’infigge nel gran solco arcaico delle forme archetipe.
Nunzio Quarto è, come si dice, un artista che si è fatto da sé. Artisticamente autodidatta, ha dunque sviluppato negli anni dentro di sé un particolarissimo, straordinario nucleo di sensibilità plastica e poetica che si nutre di suggestioni rare, preziose, ricavate dalle semplici radici della sua fanciullezza, dal rapporto con la terra, con la natura, con le pene e le gioie di una vita ormai quasi dimenticata. Il suo lavoro gli somiglia, dando insieme l’impressione, quasi fisica, di una grande forza unita ad una profonda tenerezza: una energia robusta, a momenti brutale, unita a una delicatezza sottile e nervosa nell’affrontare il viaggio del creare e del vivere.
Tanto forte e tanto sensibile che ora, avendo di fronte una campionatura di quasi tutti i suoi lavori, foto, riproduzioni, fotocopie (una bella scelta tra le carte che lo riassumono, disposte alla rinfusa sulla scrivania) pare quasi a chi scrive di vederselo davanti, con la sua barba da profeta e la voce attenuata nel racconto del suo viaggio interiore, immagine per immagine, forma per forma... E pare di capire, appunto, che questo suo cammino tra le cose, questa sua esplorazione, questo suo vagabondare interno all’anima, si è fatto, con i decenni, sempre più impellente, più necessario, almeno da quando, da “provinciale” qual era del sud, è venuto qui a Milano, diventando a tutti gli effetti un milanese, intento a vivere nel centro delle cose. E pare di comprendere, ancora, che da diversi anni, sufficienti per entrare come si deve nella maturità, sia rimasto tale, sì, ma anche e sempre strettamente, appassionatamente ancorato a Barletta e alle sue campagne, quella sua terra di nascita e d’infanzia: al suo radicamento definitivo, casa, luogo, paese riconosciuto e ritrovato in ogni momento… Paese che, per questo, gli regala il suo riflesso, il suo spessore, la sua sicurezza.
C'è chi come lui, infatti, viaggia attraverso le cose e le immagini o vive in altre città non per amore del cambiamento, o del viaggio fine a se stesso, ma per rimanere fermo, invece, sulle proprie passioni, per restare davvero fedele ai propri originari sentimenti e persuasioni a dispetto di uno scenario che continuamente intorno a lui evolve, muta, si trasforma e si confonde.
Per questo il suo lavoro si svolge secondo lente ed assorte maturazioni tematiche che, con approfondimenti, riprese, nuove intuizioni e ritorni, innescano appunto la fantasia, la dilatazione lirica, la metafora interna alle forme stesse, e trascinano suggestivamente le tensioni tattili e plastiche dell’immaginario in un largo territorio evocativo.
Queste superfici tormentate e pacate ad un tempo, nel gioco dei vuoti e dei pieni che inquietano la luce catturandola tra piani e curve, si snodano e riannodano sulle patine e sui colori, con bronzi e gessi, legni, tempere, olî e ossidi vari. Trasformate e rastremate dalle sue mani, appaiono, sì, gesti plastici fermati in una loro compiutezza, ma soprattutto divengono come la traccia, o l'ombra portata, di una straordinaria, limpida materia espressiva.
Notava tempo fa Gianni Vattimo in "La fine della modernità", che ciò che accade oggi, nell'epoca della riproducibilità tecnica, è che l'esperienza estetica si avvicina sempre più per ognuno di noi a quella che Benjamin ha chiamato la "percezione distratta" dell'opera d'arte. Ed è appunto contro una tale distrazione che Nunzio Quarto lavora. Senza messaggi nella bottiglia, da porgerci ammiccando, ma solo nella purezza del suo sogno gentile, del suo preoccupato riflettere, ci conduce a raggruppare i frammenti, a condensare i sogni: a ripercorrere gli attimi, le sensazioni, i presagi e le intuizioni che formano la nostra vera coscienza delle cose.
Proprio la stessa natura di queste opere porta a riconoscervi un orientamento che non è solo di mano o di gusto e che, invece, amabilmente e sottilmente, è capace di volgersi in garbata, istintiva filosofia dell'esistere. La loro consistenza tattile e il loro potenziale allusivo, difatti, sono almeno doppi, poiché se da una parte le loro apparenze si contengono in quelle di sculture e pitture con attributi di piacevolissima godibilità estetica, dall'altra tuttavia esse si dispongono nello spazio o sulle pareti come una trama d'inquieta contestazione, o anche di esplicita dissidenza, rispetto alle atmosfere circostanti, cioè rispetto al "grigio" che oggi connota il nostro presente e le sue dimensioni civili, e che segna l'appiattimento sostanziale delle nostre capacità di fantasticazione e d'immaginario. Nel puzzle delle sue incessanti costruzioni Quarto - per riprendere la metafora di alcune delle sue tele in cui il gioco geometrico dei piani di colore crea saporose città d’invenzione - ci appare davvero come un costruttore di case, di rifugi e di castelli destinati al sogno e al pensiero. Per sognare e pensare lui stesso, ma anche per farci sognare e riflettere.
In queste costruzioni, che il filo a piombo del muratore sa architettare solidamente, memore di un mestiere antico, il passato e il presente si richiamano l'un l'altro, tra raggi luminosi e superfici, soglie del vento, macchine d'arcobaleni e di eternità: tutta una panoramica di arricchimenti e di enfatizzazioni, di sfondamenti e di riproposte della prospettiva e del senso scenico dello spazio, che si dispone nell'ambiente per trasformarlo in una sorta di vasta allusione da vivere sensualmente in tutta la sua "semplice" complessità.
Perché, in fondo, è anche questa una delle nature dell'operazione di Nunzio. Recuperare istintivamente, semplicemente, nell'arbitrio dolce della poesia, le vivaci potenzialità di un pensiero antico e complesso da opporre alle smorte prevedibilità del pensiero "debole" di oggi, laddove quest'ultimo conduca alla banalità di un modo di pensare l'arte solo, da una parte, sul piano della rappresentazione didascalica e pedissequa e, dall'altra, solo su quello di una sua assoluta astrazione puramente segnica, nel limbo impotente del mero gusto.
Né "figurativi" né "astratti", pertanto, il suo accento espressivo e il suo gesto creativo si muovono a tutto campo in appassionante libertà di ricerca e di esiti, equivalenti, felicemente privi di modelli e di concessioni opportunistiche.
E il tempo e la memoria, colti appunto in "tempo reale" sull'onda delle forme e dei colori, degli accordi e dei contrasti di volume e di significato, vengono a costituire il tessuto connettivo dell'immaginazione che da un tale accento si esprime; come per una sorta di trasferimento, o estraneazione, o sublimazione, essi richiamano magie che più che antiche sono eterne, archetipi intensi, connaturali all'uomo e ai suoi sentimenti, alla sua emozione del vivere, del pensare, dell'immaginare.
Giorgio Seveso